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QUANDO I RETAILER ASCOLTANO (DAVVERO) LA VOCE DEL CLIENTE

15/2/2013

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QUANDO I RETAILER ASCOLTANO (DAVVERO) LA VOCE DEL CLIENTE

L’espressione “adeguare le proposte alle esigenze del cliente” è una delle frasi più pronunciate dai manager e operatori del mondo dell’impresa un po’ ovunque: non c’è convegno o intervista che non le faccia ascoltare. E’ una specie di mantra che purtroppo non ha una misurazione oggettiva e, quindi, non sempre si comprende quanto queste dichiarazioni abbiano un riscontro nella realtà quotidiana poi vissuta dai clienti. A guardare “dal di dentro” i comportamenti delle imprese, il tema della lettura delle “esigenze del cliente” si traduce in forme spesso molto diversificate e non sempre adeguate.

Va comunque detto che l’approccio empirico tipico delle aziende di cultura manageriale anglosassone ha il merito di aver promosso e diffuso l’adozione delle ricerche sul consumatore.

I retailer hanno imparato dalle aziende produttrici: oggi le ricerche fanno diffusamente parte del modus operandi anche delle aziende che multinazionali non sono, soprattutto nella fase di lancio di nuove offerte di prodotti o servizi. Ma ecco un primo punto critico: accade spesso che dal momento del lancio in poi “il venduto” si imponga come un interprete indiretto della voce del cliente; e così diventa molto facile che i manager pretendano di conoscere loro per primi cosa vuole il loro cliente. Peccato che le vendite siano un indicatore troppo complesso per raccontare bene le esperienze vissute dai clienti. Inoltre, quando i problemi si manifestano nelle mancate vendite è quasi sempre troppo tardi.

Ecco quindi che ascoltare la voce del cliente risulta essere vitale anche per le aziende di distribuzione.

Un ascolto davvero utile, tuttavia, deve avere le caratteristiche di sistematicità, continuità e pervasività. Sistematicità significa rendere questo ascolto strutturato e metodologicamente corretto; continuità significa ripetere l’ascolto in modo da avere la possibilità di effettuare confronti nel tempo; pervasività significa renderlo attivo in ogni ambito dell’organizzazione di front-line e esteso a tutti i momenti della verità della relazione.

Approccio accademico? No di certo, quando si pensa che gli strumenti e le prassi di base sono assolutamente “a basso costo”: staccarsi dalle scrivanie e ascoltare le conversazioni dei clienti in coda alle casse o di fronte agli scaffali, mettersi dietro al vetro durante un focus group, ascoltare le telefonate dei clienti al customer care, leggere le mail dei clienti. E’ in primo luogo un fatto di cultura, non di investimenti.

SUPERQUINN

Lo dimostra la storia di Feargal Quinn dei supermercati SuperQuinn, piccolo gioiello della storia del retailing (anni ’90). Una piccola catena con una grande visione: integrare il cliente nella gestione. Alcuni esempi? I capireparto giravano tra gli scaffali per conversare con i clienti e rispondere alle loro domande; gruppi di clienti che si prestavano gratuitamente venivano riuniti in appositi team work e giudicavano apertamente il supermercato partendo dal layout, la gestione dei reparti, i prodotti, soprattutto le store brand, la comunicazione, i servizi; i dirigenti dovevano fare la spesa per la famiglia nei negozi. «In pratica – osservava Quinn – bisogna essere in grado di diventare un cliente. Nel retailing lo definiamo “saltare dall’altra parte del banco”. Il mercato appare totalmente diverso visto dalla parte del cliente». Addirittura da SuperQuinn il cliente ogni volta che si lamentava riceveva 200 punti fedeltà. E già perché il feedback del cliente va incoraggiato. Attenzione però, che non basta raccogliere i feedback: questi devono essere intergrati nei processi interni e indirizzati al cambiamento reale della gestione operativa. Addirittura per gestire il pricing o gli assortimenti.

GAP

E’ quello che fa l’azienda di abbigliamento GAP: ingaggia i clienti per cambiare la determinazione del prezzo e l’impostazione delle promozioni. Nel 2011 il retailer USA ha lanciato una azione straordinaria attraverso il sito gapmyprice.com, dove i clienti decidono quanto pagherebbero per un paio di pantaloni “chinos” e fanno una offerta on line. La catena fissa un prezzo che i clienti possono accettare o rilanciare con una loro offerta. Alla fine il cliente che accetta il “deal” passa dal negozio a ritirare i suoi pantaloni.

Oggi le aziende hanno, di fatto, la rivoluzionaria opportunità di avere in internet una piattaforma di comunicazione con i clienti mai vista prima.

ASDA

Asda, catena di supermercati inglese, nel 2009 ha lanciato un assortimento di prodotti ricettati “Choosen by you” creati con il contributo di un panel di 18.000 consumatori; il retailer inglese ha rilanciato recentemente la gamma con 500 nuove referenze facenti parte di un programma di 100 milioni di sterline: questa volta sono stati coinvolti 200 mila clienti. Il cliente Asda è sempre “a bordo”: attraverso “Your Asda” (il tuo Asda) permetterà ai consumatori di seguire il percorso produttivo dei prodotti a marchio Adsa attraverso una webcam; infine, con Bright Ideas (idee illuminate) Asda offrirà 100 sterline a qualsiasi cliente in grado di suggerire un'idea che garantirà all'azienda risparmi.

WALMART

Il colosso della distribuzione mondiale Walmart fa leva sul crowdsourcing per innovare i suoi assortimenti: i consumatori sono invitati a votare online all’interno di un contest collocato in un portale web dal nome “Get on the Shelf” (www.getontheshelf.com) quali prodotti vorrebbero vedere sugli scaffali; l’azienda ne selezionerà tre ogni anno proponendoli con grande visibilità sia sul sito sia nei negozi. La risposta dei consumatori? Oltre un milione di voti per la prima selezione.

STARBUCKS
Anche Starbucks, catena di coffee shop, usa i social media per ingaggiare i clienti: “My Starbucks Idea“ è un luogo virtuale dove i fan di Starbucks possono proporre e vedere attuate le proprie idee e i propri consigli nelle loro caffetterie preferite. Anche questo contribuisce ad allargare l’”esperienza Starbucks” per i clienti (e il vissuto del brand), mentre per l’azienda è una occasione di tesaurizzare  tutti i benefici della open innovation.

BEST BUY

La catena dell’elettronica USA Bestbuy organizza il proprio staff di negozio con un programma chiamato “My Customer” creato sulla filosofia V.O.C.E., ovvero raccogliere la “voce del cliente” attraverso gli employee; il funzionamento è semplice: su un tool portatile l’operatore di front line inserisce commenti sulle istanze poste dai clienti e in un attimo è in rete. In sintesi, più di 100.000 “orecchi” pronti a registrare gli esiti delle interazioni con i clienti per poi condividerli. Il risultato? Un incremento del 30% degli indici di customer service in negozio.

PEOPLE’S SUPERMARKET

Se poi ci si vuole spingere sulle frontiere della partecipazione, si deve andare a fare la spesa a Londra da People’s Supermarket, un esperimento innovativo di retail “rovesciato” dove a capo ci sono i clienti. People’s Supermarket è il network alternativo per fare la spesa basato sul coinvolgimento della comunità, per offrire prodotti locali, a basso impatto ambientale, biologici, sani e soprattutto low cost. Si tratta di una cooperativa a cui si può aderire versando una quota societaria di 25 sterline l’anno (circa 29 euro) e 4 ore di lavoro settimanale, in cambio di un ulteriore 10% di sconto sulla spesa, già di per sé a basso costo.

Come si vede gli strumenti di cooptazione del cliente non mancano: per lo più accessibili, gestibili e molto spesso a basso costo. E’, invece, molto più complicato e difficile gestire la ricaduta organizzativa del feedback; spesso il cambiamento richiesto dal cliente comporta attivazioni interfunzionali, richiede decisioni rilevanti, necessita di riprogettazione delle organizzazioni e dei processi (forse ci vuole davvero un Chief Customer Officer!). Forse per questo Richard Branson, fondatore di Virgin, si siede periodicamente nei call center ad accogliere personalmente le telefonate dei clienti.

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